Leopardi? Un dolore dolce

Leopardi? Un dolore dolce

Il filosofo Sergio Givone vince il Premio La Ginestra: ha saputo trasmettere del poeta recanatese un’immagine “più celestiale e meno infera”: “Toccò le vette del pessimismo ma amava la vita”.

Ugo Cundari

A Sergio Givone, filosofo del nichilismo a lungo docente di Estetica all’università di Firenze e autore di saggi come Storia del nulla (Laterza, 1995) e Il bibliotecario di Leibniz (Einaudi, 2005), è stato assegnato il Premio La Ginestra che celebra Leopardi e i luoghi campani da lui più amati. Negli anni consegnato, tra gli altri, a Martone, Masullo, Cacciari e Vecchioni, gli sarà conferito a Villa Campolieto a Ercolano il 5 dicembre alle ore 11. Secondo la giuria, Givone ha avuto il merito di trasmettere un’altra idea del poeta recanatese, “più celestiale e meno infera”.

Leopardi uomo non solo disperato, professore?

Oltre che “dura realtà delle cose”, Leopardi definisce la vita anche “dolce”. Non si può negare che il nostro poeta abbia toccata le vette del pessimismo, eppure la sua disperazione è figlia dell’amore per la vita. È disperato perché si aspettava qualcosa che poi il destino non gli ha dato e ciononostante rimane attaccato alla vita grazie alla poesia. Per lui la poesia è somma espressione della fede nella dolcezza dell’esistenza, sempre possibile, sempre avvertibile. Insieme alla dolcezza, parola tra le più ricorrenti nei sui scritti, l’altra parola facilmente associabile al pensiero leopardiano è tenerezza.

Pur nel dolore, Leopardi continua a sperare?
E a domandarsi quale sia il senso della vita senza offrire risposte, né religiose né metafisiche. Conta che le sue domande sul senso ultimo siano, ancora, piene di tenerezza per le cose del mondo, per una fanciulla, per l’esistenza semplice e umile di un villaggio, per i pensieri di un pastore errante.

Dieci anni fa lei ha scritto “Metafisica della peste”, lo aggiornerà per trattare del Covid?
Non serve, è già tutto lì, analizzato e spiegato nei suoi effetti sull’umanità. Ogni tipo di peste, come sono state la bubbonica o la spagnola, come oggi è il Covid, spinge l’essere umano a farsi responsabile nei confronti degli altri, a essere più umano di quanto sia stato fino a quel momento. Arriva la peste e ci rendiamo conto di qualcosa che avevamo dimenticato, ossia che ci salviamo solo prendendoci cura di noi stessi e degli altri allo stesso tempo. Questa è la lezione di ogni peste. 

È giusto chiamare il Covid peste?
Dovrebbe essere obbligatorio, così magari i no vax capiscono che la posta in gioco è molto alta e si convincono a vaccinarsi. Non parliamo più del Covid-19, formula asettica e poco incisiva emotivamente, parliamo di peste, chiamiamola per quello che è: una catastrofica, immotivata e noncurante malattia che appare e scompare senza senso alcuno. Una malattia che uccide, ma che può far di peggio, lasciando le sue vittime nude e private di qualunque parvenza di civile umanità. Dobbiamo essere coraggiosi e sinceri come Leopardi. 

Ancora Leopardi?
L’ipotesi più accreditata è che Leopardi sia morto di colera a Napoli nel 1837. Ne ha scritto e con ironia ha notato: “La peste che la gentilezza del secolo chiama cholera”. Insomma, anche allora si era scelto un nome più delicato, che faceva meno spavento. Quanto suona attuale il diario leopardiano di quei giorni, che parla di casi che sembravano diminuire e poi tornavano a salire, di giorni chiusi in casa per paura del contagio. Oltre al periodo storico, Leopardi ha saputo anche trovare il nocciolo più autentico della questione.

Quale?
Lui è stato il primo a individuare e comunicare con parole molto chiare che nel cuore della natura esiste da sempre un elemento distruttivo che può venire fuori da un momento altro. Leopardi ha intuito la presenza di questo fantasma, perciò dice che “culla” e “nulla” fanno rima e che la vita, al contrario di quanto si fosse sempre pensato, non è mai al sicuro dall’annientamento totale e definitivo. Ancora una volta, pur portando nel cuore il peso di questa convinzione, ha scelto la tenerezza: scrivendo una poesia per un fiore come la ginestra.

Fonte Il Mattino